Il progetto URiT
Le Unità di Ricerca sulle Topografie sociali si costituiscono nel gennaio 2008, a partire dall'esperienza di ricerca e formazione di giovani studiosi maturata presso la Cattedra di Topografie dello Spazio Sociale dell'Università degli Studî di Napoli Suor Orsola Benincasa e il fertile ambiente accademico nel quale essa è inserita, con i suoi centri di eccellenza per la ricerca e la formazione superiore e - soprattutto - lo spirito di libertà che da sempre vi si respira.
Dal punto di vista delle opzioni teoriche di fondo, sono evidenti fin nell'acronimo scelto i riferimenti al pensiero di Michel Foucault e Pierre Bourdieu: con il primo si condivide soprattutto l'idea che la gestione sincrona di territori e popolazioni costituisca l'essenza profonda dei dispositivi di governo reale delle società tardoliberali e quindi dei processi di globalizzazione; con il secondo, le categorie spaziali vengono intese, in continuità con Simmel, come un insieme di pratiche tanto materiali quanto simboliche di distinzione/suddivisione del corpo sociale secondo confini che di volta in volta possono investire le frontiere fra nazioni e quartieri urbani, le silhouettes di pelle, di religione e di lingua, le linee di demarcazione fra consumo e non-consumo e fra le differenti tipologie di consumo, fra luoghi dell'inclusione piena e luoghi dell'esclusione sociale, fra aree depresse e aree sviluppate, aree "di margine" e aree "di centro", aree "di guerra" e aree "di pace" e via dicendo.
Tali configurazioni dello spazio sociale affondano indubitabilmente le proprie radici nell'ordine produttivo vigente e nella distribuzione di potere reale all'interno delle società "globalizzate"; al contempo, tuttavia, esse sono "carte", ossia rappresentazioni/narrazioni del sociale che - proprio come le mappe degli atlanti - possono agire come potenti distorsori di realtà, mostrando come "dati oggettivi" fenomeni che appartengono invece all'ordine della produzione dei discorsi e dei simboli. Rientrano certamente in questa categoria tutti i dispositivi di classificazione delle condotte, di essenzializzazione culturalista delle soggettività, di etnicizzazione/razzializzazione dei fenomeni sociali: grazie a essi, singole soggettività possono essere trasformate in "popolazioni" statisticamente omogenee, singoli "territori" possono essere inseriti in un continuum gerarchico di funzioni differenziate e, in definitiva, le istanze biopolitiche di tutela della vita possono rovesciarsi in tanatopolitica, ossia nel ritorno dell'esercizio sovrano del diritto di dare la morte - per fame, guerra o distruzione dell'ambiente biologico - a quanti pretenderebbero di eccedere i propri confini e la propria biografia o di rivendicare al proprio territorio funzioni differenti da quelle assegnate.
L'insieme di questi dispositivi costituisce parte essenziale del processo di produzione del terzo elemento isolato da Foucault alla base della governamentalità liberale: la "sicurezza", ossia il complesso di discorsi e di pratiche mediante le quali è possibile dislocare popolazioni e territori secondo specifiche classi di rischio. Attraverso la categoria di rischio, il discorso sicuritario sembra spingersi fino al punto di sussumere l'intero discorso pubblico, finendo potenzialmente per coincidere con la "politica" tout court; una vera e propria matematica attuariale può allora incaricarsi di riscrivere nel segno del rischio l'intera questione sociale: temi quali lo squilibrio e l'esclusione, per esempio, possono essere descritti come pura articolazione di minacce potenziali o reali ai livelli di benessere conseguito in Occidente o in alcune aree di esso, mentre i conflitti sociali -sia qualora investano una dimensione "locale" (come nel caso delle periferie urbane o delle lotte ambientaliste), sia qualora si svolgano su scala globale (quelli, per intendersi, rubricati d'ufficio sotto la "voce" civilization clash) o transnazionale (è il caso dei migranti e dei richiedenti asilo)- possono essere agevolmente narrati dal circuito delle comunicazioni di massa come guerre "preventive" (ossia, appunto, di prevenzione dal rischio) contro "nemici totali".
In tutti questi anni, grattare via i colori dall'atlante, decostruire le narrazioni correnti, è stato precisamente l'obiettivo fisso alla base del progetto URiT, con l'idea, insomma, di produrre "racconti vivi" di un territorio: in tutti i casi nei quali le circostanze esterne lo rendano possibile (non è stato così -purtroppo e per ovvie ragioni - nel caso delle ricerche dai noi svolte sulla società civile irakena nell'immediato dopoguerra), i risultati delle nostre elaborazioni, analisi e interpretazione dei dati vengono discussi "in progress" con i protagonisti delle vicende narrate che, a loro, volta, diventano spesso "docenti" della propria esperienza nei seminari per i nostri studenti e giovani ricercatori...
Fatalmente, l'insieme di queste motivazioni di fondo non poteva che condurci a portare la nostra piccola boite à utils soprattutto nei luoghi di "crisi", laddove la sofferenza sociale è più acuta e il dolore si fa grido. Molte delle ricerche di questi anni (tra cui quelle sulle relazioni migranti/autoctoni, sulle rivolte delle popolazioni della Campania durante la cosiddetta "emergenza rifiuti", sulla società irakena del dopo-Saddam o sui lavoratori e cittadini vittime dell'amianto in Irpinia) hanno preso le mosse proprio dall'apparente inintelligibilità di tali grida, spesso rappresentate dai sociologi come silenzi, autentiche afasie del sociale o, peggio, descritte come incomprensibili gutturalità riaffioranti da un passato incivile e barbarico. Questi luoghi di crisi coincidono, infatti, con i luoghi nei quali l'essenzialismo istituisce nuovi confini, separa il simile dal simile, unisce il differente al differente. È soprattutto in questi luoghi che le forme reali del vivente, quelle che gli antropologi definiscono popolazioni "politetiche" (caratterizzate, ossia, da una grande varietà di elementi comuni e di discontinuità), vengono incessantemente scomposte e ricomposte secondo i principi di volta in volta più utili all'economia politica dell'esclusione: i confini della pelle, della lingua, della fede, del capitale culturale e di quello fisico, tracciano cartografie di un'umanità a geometrie variabili, giungendo non solo a distinguere l'umano dal sub-umano, ma persino a discernere il non-umano e le infinite gradazioni interne di ciascun raggruppamento. In gioco, qui, è evidentemente l'occultamento della natura processuale e relazionale del fatto sociale, ossia quella de-socializzazione dell'esistenza che costituisce l'essenza più profonda del biopotere. La presa di parola che si leva nei mille movimenti "locali" di reazione a un'ingiustizia è perciò sottoposta a una procedura di contestazione a priori della sua legittimità storico-politica e, ove possibile, negata fino alla sua riduzione a silenzio. Coerentemente, il silenzio non segue più la sconfitta (il "silenzio dei vinti"), bensì ne costituisce parte integrante: è l'arma e l'offesa, il delitto e la pena, lo stivale che calpesta e la rappresentazione di chi è calpestato (l'algoritmo spettacolarizzato delle vittime in tv...). Come ci ricordava tempo fa Said, nel Fidelio di Beethoven, Florestano è avvinto in ceppi per aver pronunciato una verità inaccettabile al potere. La sua condanna è il silenzio, protetto dalle spesse mura di un carcere segreto; nel frattempo altri (il potere) racconteranno Florestano...
Il nostro è essenzialmente un lavoro critico: noi proviamo soltanto a liberare il groviglio del discorso corrente da alcuni nodi -quelli, almeno, cui le nostre dita di artigiani della conoscenza riescono a giungere- affinché il filo possa tornare -almeno in parte- a tendersi di nuovo... Saranno altri, se lo vorranno, a sperimentare altre combinazioni di possibili nodi. Fuori da ogni rigurgito positivistico, da ogni tentazione di pedagogia sociale, in URiT riteniamo con Foucault che il lavoro del ricercatore debba fermarsi qui, appena varcata la soglia del gesto che decostruisce, a questo snapshot capace di fotografare l'istante del potere, cogliendolo in una sua specifica articolazione. Oltre, si stende davvero l'aperto, lo spazio delle infinite possibilità: certo, la libertà inizia laddove i limiti del potere si rendono visibili, ma questa è un'altra storia e sappiamo che sotto i limiti visibili possono nascondersene altri, e ancora altri... C'è un nodo buono? Forse sì, o almeno è possibile cercarlo, ma per poter raccontare di questa "ricerca" occorrerebbe necessariamente spogliarsi della presunta oggettività di ciò che studiamo, per ri-soggettivarsi nella personale vicenda umana di ciascuno; dunque, non ne leggerete: né qui, né altrove. Questo è, fortunatamente, il "fuori" e l'"oltre" di URiT, il suo "prima" e il suo "dopo", ossia le donne e gli uomini che ne hanno animato e ne animano in concreto l'esperienza, nel tentativo anti-gerarchico (e un po' anti-accademico) di "non innamorarsi mai del potere", secondo i precetti di quella meravigliosa parafrasi di Francesco di Sales che Foucault volle chiamare Introduzione alla vita non fascista.