LA MARCIA DELLA FAME, UNA E TANTE STORIE/THE HUNGER MARCH, ONE AND MANY STORIES
Abstract
Ma perché proprio San Bartolomeo? Perché proprio questo ultimo paesino di frontiera che sembra essere al centro di tre province e, invece, è solo ai margini delle tre province, e anche delle rispettive tre regioni che sono Campania, Puglia e Molise?
Guardando quelle riprese della TV pubblica, oltre che a riconoscere molti volti di compaesani allora giovani, con le facce incuriosite e al contempo partecipi, si scorgevano i musicisti cileni intenti a dipingere quel muro sotto la chiesa: da un lato vi era raffigurato il sole, con i suoi raggi dritti e a punta, che illuminano e nutrono i frutti della terra e, poi, sagome di persone, contadini, dagli sguardi un po’ corrucciati, ma in cammino, in quella che è una raffigurazione dinamica, colorata, mai ferma. Era la cosiddetta “Marcia della Fame”, di cui io personalmente fino a quel momento non avevo mai sentito parlare [...]
Quella idea di rivolta contadina del 1956 aveva in poco tempo preso piede anche nei paesini limitrofi, come Montefalcone di Valfortore, Baselice, Foiano e altri piccoli centri circostanti, ma durò poco, perché i “ribelli” furono messi a tacere senza troppe difficoltà. Quindi, a partire dagli anni Sessanta, mentre in gran parte dell’Italia si assisteva al boom economico, qui nel Fortore si assisteva al boom delle emigrazioni, fenomeno ancora oggi attivo, seppure in minima parte, considerato l’esiguo numero dei rimasti.
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La “Marcia della Fame”, come riportano gli atti della questura e della prefettura, non si sostanziò in una sola azione di protesta, ma vari furono i tentativi dei lavoratori di uscire dalle cinta murarie per recarsi personalmente presso le sedi istituzionali e portare lì lo sdegno, la rabbia e la rivendicazione e, infatti, un primo tentativo di uscita avvenne a metà del 1956, quando le genti di San Bartolomeo, Foiano, Baselice, Montefalcone, Castelfranco, Castelvetere e San Marco dei Cavoti, per il tramite delle camere del lavoro sindacali, concordarono di radunarsi a San Marco dei Cavoti per poi proseguire verso Benevento. Rigorosamente a piedi e disarmati, ancorché scalzi, anche se l’azione fu presto intercettata dalle forze di polizia e l’assembramento fu subito dissolto tra un mare di nuovi impegni solenni e promesse di avvio dei lavori, atte però solo a garantire il mantenimento dello status quo.
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Qui mi preme raccontare un aneddoto, riportato anche nell’intervista rilasciata da Gregoretti alle telecamere RAI nel 1976 quando gli Intillimani vennero a dipingere il murales: una donna, ormai anziana, raccontava dell’affronto che ebbe con i carabinieri a San Marco dei Cavoti quando il Maresciallo disse ai suoi uomini “caricate!” e lei pensava che li caricassero sui loro mezzi per accompagnarli a Roma, mentre invece furono solo mazzate.
Ciononostante, alcuni riuscirono a scamparla e, seppure malmessi, rimasero durante la notte ospiti presso le masserie sparse nell’agro-sammarchese, dormendo nelle stalle, ristorati da qualche fetta di pane e formaggio a malapena recuperati da altra povera gente, onde consentire l’avanzamento di quella marcia che, però, il giorno successivo fu completamente dissolta presso le campagne dell’Alto Tammaro dove «l’esercito straccione è sbaragliato» (così ancora il Prof. Gianni Vergineo).
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Era questa la storia, la storia da cui parte il lungo e interminato capitolo delle emigrazioni, che da lì ebbero inizio, decimando, e di molto, il numero degli abitanti di tutti quei paesini che fino ad allora erano molto popolati; da qui l’idea degli Intillimani di realizzare, vent’anni dopo, un murales dedicato a questi poveri eroi nati sconfitti, ma con la sana volontà di realizzare qualcosa di concreto, mettendoci la faccia, le mani, i piedi, e la speranza di poter contare almeno sui propri sforzi, nonostante i dolori di pancia.
Da qui il definitivo declino del Fortore, oggi terra di anziani e pochi studenti pronti per spiccare il volo per andare a studiare in città e, magari, rimanerci per tutta la vita, garantendo a sé stessi una migliore esistenza.
Da qui partono le storie di ogni singolo individuo che, tra le lacrime e la rassegnazione, si è visto costretto a rifarsi una vita altrove, a centinaia o migliaia di chilometri lontano da quel focolare che aveva cercato di difendere con dignità e orgoglio, tenendo vivo quel sentimento di unità e appartenenza che non era rivolto solo ai familiari, ma a tutta la comunità, anzi, a tutte le comunità limitrofe con cui aveva tentato di “fare rete” (come si usa dire oggi), mettendo al centro il valore della collettività come presupposto del benessere dei singoli associati.
Contadini ignoranti, che cercavano di istruirsi nel dopolavoro, per capire le ragioni del proprio status di poveretti soggiogati da un potere sordo e corrotto, mossi dalla genuina volontà di crescere assieme al proprio territorio, al quale erano molto legati, e con essi i loro figli.
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Coloro sui quali pendevano accuse penali, come mio nonno, attesero di essere prosciolti dai Tribunali, difesi dagli avvocati pagati dal partito, prima di emigrare. Erano tante storie in una sola storia, tutte dal polso tangibile, tutte così personali e soggettive, ma anche molto simili tra loro, forse per questo ho scelto di raccontare quella mia e della mia famiglia, pensando potesse essere rappresentativa, in realtà, tutte queste informazioni che per una vita intera avevo cercato; ho, poi, scoperto che erano loro a cercare me, e ne sono rimasto compiaciuto, ma anche molto stupito. Il destino. Ora avevo capito chi era mio nonno, i suoi principi e il rifiuto verso le regalie.
Avevo capito perché era emigrato in Germania, avevo capito perché aveva dato fuoco alla pila intera di libri, foto e documenti che riempivano la sua piccolissima casa fatta di sole due stanze; comprendevo bene la sua istruzione.
Avevo capito perché io ero nato in Germania e perché mio padre e mio zio non avessero mai avuto la benché minima intenzione di proseguire il percorso comunque tracciato da loro padre, come del resto nessun altro in famiglia, tranne io, quel bimbo incuriosito da quel personaggio, che alla domenica sera, con un sincero sorriso stampato in faccia, mi recitava a memoria i passi della Divina Commedia, tra le sue braccia, con la cinquemila lire in mano, all’ombra di quei colori sparsi a chiazze sul vecchio muro ingrigito di fronte casa; e che morì lo stesso anno in cui a Berlino un altro muro veniva giù.
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Registrazione presso il Tribunale di Napoli n. 37 del 05/07/2012